Archivio Vittorio Mascherini

una vita attraverso due guerre mondiali e la resistenza

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RICORDI DI UN ALLIEVO UFFICALE

di

LUIGI BOCCI

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       Grande era la disorganizzazione dell’esercito repubblicano e nessuno sapeva, in attesa della risposta del Comando regionale a cui ci si era rivolti, quale grado darmi. Poiché ero stato allievo ufficiale ci rimasi per circa tre mesi, cioè fino a quando giunse la risposta del Comando che ordinava di rimuovermi da ogni grado e così tornai ad essere un semplice autiere.

       In caserma ritrovai molti miei compagni del vecchio corso di Massa che ricoprivano il grado di sergenti allievi ufficiali. Alloggiai nella loro camerata e potei così conoscere da vicino quasi tutti gli ufficiali che si erano presentati volontari. Quando in questo triste racconto mi capiterà di far menzione di loro, aggiungerò qualche parola per mostrare il loro carattere e le loro azioni.

       La vita di caserma, appena io giunsi, non era molto dura; al precedente corso allievi ufficiali avevo dovuto lavorare molto di più. Tuttavia una continua minaccia ci turbava e questa minaccia era racchiusa nel nome di una città: Vercelli. Vercelli era sulla strada che portava in Germania. Ogni momento gli ufficiali ci dicevano: << Rigate diritti o vi si manda a Vercelli >>. Certamente l’andamento delle caserme non era regolare come prima dell’8 Settembre. 

Ogni sera dal rapporto che il sergente di giornata faceva all’ufficiale di picchetto apprendevamo che decine e decine di giovani non si presentavano alla chiamata o erano irreperibili. La repubblica dava loro l’appellativo di << assenti arbitrari >>.  Le prigioni erano sempre piene di autieri ricondotti in caserma dalla benemerita arma dei carabinieri; e molti di essi venivano spediti a Vercelli.      

        Intanto in caserma si facevano grandi spese: i muratori erano sempre sul posto e si può dire che abbiano lavorato più in periodo repubblicano di quanto lo abbiano fatto in tutti gli anni precedenti. I lavatoi, il locale dello spaccio, i gabinetti, la sala del barbiere, tutto venne ricostruito di sana pianta. Il maggiore Maffioli, che doveva avere qualcosa di poco pulito sulla coscienza e che non usciva mai di caserma, aveva impiantato, accanto alla sua camera, un bagno personale con tinozza e bidè. 

 Dopo una decina di giorni che io ero a Firenze avvenne la chiamata alle armi delle classi 1922 e 1923. Benché non si presentassero molti giovani, la piccola caserma del Poggio fu presto gremita di richiamati vestiti di abiti borghesi. Ve ne saranno stati oltre duecento. All’improvviso una sera essi furono caricati sui camion e inviati a Vercelli. 

Partirono cantando << Bandiera Rossa >> e la   << Marcia Reale >> e tutte quelle canzoni che venivano loro in mente contrarie alla repubblica. Insultavano il colonnello Mazzari e il maggiore Maffioli, che assistevano alla partenza dall’ingresso della caserma, gridando loro << porci e venduti >>. I giovani erano accompagnati da moltissimi ufficiali e sergenti, poiché si temeva che volessero fuggire durante il viaggio.

        C’erano in caserma una ventina di ragazzi che nel dicembre del 1943 erano fuggiti dall’esercito e che nel marzo successivo, dopo il bando del duce, si erano ripresentati per paura della fucilazione. Appena presentatesi, per punizione essi furono consegnati per trenta giorni in caserma e privati del soldo giornaliero. Erano molto preoccupati per la loro sorte e temevano sempre di essere mandati a Vercelli. io, che a quel tempo sbrigavo le mansioni di sergente, ebbi agio di conoscerli e di stringere amicizia con uno di loro, un bravo ragazzo spezzino che prima dell’8 settembre era stato caporale e che ora era semplicemente autiere. Mi diceva che non vedeva l’ora che arrivassero gli inglesi e che aveva paura di finire in Germania. Io stesso, a dir la verità, non ero troppo tranquillo per questo mio amico e per i suoi compagni. Un giorno decisi perciò di chiedere spiegazione ad un ufficiale, un certo F. N., che avevo conosciuto nella camerata dei sergenti. Egli è un fiorentino, piccolo e insignificante, sottotenente effettivo sotto qualsiasi bandiera; ha infatti giurato alla monarchia e alla repubblica e sono sicuro che apparterrà al nuovo esercito essendosi dato alla macchia pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati e essendo stato ferito dai tedeschi, secondo quanto mi ha raccontato un amico. Egli mi rispose che i giovani consegnati erano disertori e le punizioni che si fossero inflitte loro sarebbero sempre giuste. Non chiesi altro, dopo questa risposta. In seguito io lo conobbi sempre meglio e il mio disprezzo verso lui crebbe ancora. Una volta trovandosi in brutte acque per una sciocchezza commessa chiese di essere inviato in zona d’impiego per paura di perdere il grado e il relativo stipendio.

Nella nostra camerata oltre i sergenti allievi ufficiali c’era alloggiato anche il figlio del colonnello comandante il reggimento autieri. Si chiamava Ugo Mazzari, ed era fascista e tedescofilo. Alla sera egli usciva spesso di caserma insieme coi suoi amici, armati fino ai denti, per tentare di acciuffare i patrioti che si pensava si trovassero a Firenze. Essi tornavano sempre a mani vuote e per la rabbia facevano nutrite sparatorie contro gli alberi. Ugo aveva un bel fucile mitragliatore Thompson che suo padre aveva portato dall’Affrica. Lo puliva ogni due o tre giorni e diceva che lo avrebbe volentieri adoperato. Aveva per intimo amico un certo Ugo Grazzini, detto il    << Pupo >> , fiorentino, giovane effeminato. Essi erano entrambi iscritti al fascio repubblicano e discutevano tra di  loro sempre di fascismo. Il << Pupo >>, del quale avrò occasione di riparlare, era malvisto e i soldati durante la notte gliene  facevano di tutti i colori.

Una mattina mentre ci trovavamo dinanzi alla Villa del Poggio Imperiale a fare esercitazioni coi fucili mitragliatori giunse un ordine per cui dovevano essere scelti quindici autieri abili tiratori ed un sergente ed inviati immediatamente al comando di Presidio. Benché l’ordine non facesse parola dell’incarico che sarebbe stato affidato ai prescelti, si venne subito a sapere che cosa essi avrebbero dovuto fare. Il sottotenente Taviani, che ha un negozio all’inizio di Via Martelli, presa la tabella dei tiri, scelse i primi quindici classificati e, dando loro per capo il sergente allievo ufficiale Ciappi, li mandò comando di Presidio. Mi ricordo bene di avere avuto quel giorno un permesso fino alle ore 22, di essere andato a cena da un mio zio che abita in Via Fra Bartolomeo. A mio zio, che è comunista e che era a conoscenza del bestiale delitto che si sarebbe commesso, chiesi se non ci fosse stato alcun mezzo per salvare le povere vittime. Egli mi rispose che i comunisti avrebbero organizzato manifestazioni popolari. Le sigaraie sarebbero uscite compatte nelle strade. Ma quelle manifestazioni non potettero avvenire per non ricordo bene quale incidente. Quella sera mi avviai verso la caserma assai tardi. In Piazza Santa Maria Novella dovetti attendere lungamente il tram; infatti poco tempo prima i gappisti avevano attaccato con bombe a mano una macchina tedesca che usciva dal comando di Via Romana e la macchina era andata a sbattere nel muro impedendo il passaggio dei tram e la linea non era stata ancora sgombrata. Mentre aspettavo passò il << Pupo >>: era solo, tornava da casa e andava al Presidio dove avrebbe passato la notte. Egli mi confermò con voce tremante che i nostri quindici compagni prescelti la mattina avrebbero formato il plotone di esecuzione di cinque giovani renitenti, esecuzione che avrebbe avuto luogo la mattina dopo. Mi disse che i nostri compagni si erano rifiutati, ma erano stati minacciati dagli ufficiali. Era stato loro detto bruscamente: << O fate il vostro dovere, o metteremo al muro anche voi >>. Poi per convincerli a compiere la loro opera senza tanti scrupoli avevano cercato di gettare il fango sui cinque giovani condannati, dicendo che erano banditi, che in una vicina campagna avevano strangolata una signora per derubarla, che avevano inoltre assassinato alcuni carabinieri. Il << Pupo >>, per quanti difetti avesse, non era un cattivo ragazzo e credeva a tutto ciò che gli avevano detto. Perciò la mattina dopo si recò, con l’ampio consenso del padre, a fare il fucilatore.

Quella mattina anziché alle ore 6,30 la sveglia sonò alle 3. Fu distribuito il caffè, venne rastrellata la caserma in modo che neppure un solo soldato potesse sottrarsi alla adunata e partimmo inquadrati. Eravamo divisi per sezioni e in testa e in coda a ciascuna sezione erano stati posti due o tre sergenti che dovevano vigilare che nessuno abbandonasse le file approfittando dell’oscurità della notte. Il vialone del Poggio Imperiale era buio, neppure leggermente schiarito dalle lampadine tascabili e dalle fioche lampade a consumo ridotto molto distanti l’una dall’altra. Marciavamo in silenzio e assai fievoli giungevano a noi i comandi degli ufficiali e il rumore del passo sonnolento del reparto. Pensavamo ai cinque giovani che venivano uccisi per obbedire ad un delinquente; tutti sapevamo infatti che ad ogni comando provinciale era giunto l’ordine di fucilare un certo numero di renitenti per intimorire gli altri e frenare la formazione delle bande partigiane.

Allorché giungemmo quasi alla fine del viale, l’ufficiale che comandava la prima sezione ordinò l’alt e il suo grido turbò a lungo il silenzio. La prima compagnia fu allora presentata al suo comandante. Era il capitano Enrico Cirri, uomo ripugnante, ladro di coperte, di sigarette, in una parola di tutto ciò che era possibile sottrarre alla dotazione dei suoi soldati. Rubava, con la complicità di magazzinieri suoi compaesani, pane, scarpe, indumenti di ogni genere ed anche rivoltelle. Una volta egli sottrasse alla sua compagnia tutta la dotazione di sigarette che doveva essere distribuita in una settimana, facendo distribuire per due settimane di seguito metà razione. Il capitano era venuto a prendere il comando dei suoi uomini per portarli ad assistere al lugubre spettacolo. Stava impalato in mezzo al viale con una bustina un po’ piegata da una parte, con la sua aria di conquistatore come quando veniva nella camerata dei sergenti a raccontarci le sue avventure amorose. In quei giorni si era fatto crescere barba e baffetti. Egli non sapeva discorrere e parlando emetteva talvolta suoni così strani che nessuno riusciva a comprendere. Aveva, quella mattina, una bella macchina fotografica a tracolla per riprendere i particolari della esecuzione.

Fatta la presentazione iniziammo di nuovo la marcia e percorremmo lentamente le strade che dalla fine del viale portano vicino al Campo di Marte. La notte si era fatta chiara e stellata, di tanto in tanto lampi illuminavano il cielo, quei lampi ci richiamavano dinanzi alla nostra immaginazione i lampi dei bengala e ci auguravamo un allarme aereo, un bombardamento, qualcosa che allontanasse il momento della strage. Giungemmo al Campo di Marte che già albeggiava, attraversammo le strade bombardate, sperando sempre in un altro bombardamento, ma ci trovammo ben presto di fianco allo stadio. Alcuni reparti di fanteria ci avevano preceduto e facevano istruzioni sul posto. A brevi intervalli cominciarono a giungere formazioni di altri corpi, insomma tutti i militari di stanza a Firenze dovevano accertarsi coi propri occhi che si faceva sul serio. Nulla però si era detto agli altri soldati sull’avvenimento a cui avrebbero assistito; si era loro comunicato che si sarebbero tenute esercitazioni collettive, movimenti di truppa e niente altro. Soltanto noi della caserma del Poggio Imperiale eravamo a conoscenza di quanto sarebbe accaduto. Arrivarono anche uno dopo l’altro, su automobili lussuose, gli ufficiali superiori e le autorità repubblicane. Quando furono giunti tutti i reparti dei vari corpi fu assegnato ad ogni compagnia uno spazio di terreno in cui gli ufficiali dovevano far compiere delle conversioni, correggere errori, insegnare come ci si presenta ad un superiore quando si è chiamati, e come si saluta romanamente. Queste manovre grottesche durarono circa un’ora. Guardavo quei soldati. Parecchi non avevano neppure la divisa, ma indossavano ancora gli abiti coi quali erano partiti da casa, sudici e laceri, e calzavano scarpacce rotte. Altri avevano di militare la giacca e la camicia, altri soltanto la bustina e con aria scanzonata la portavano sulle ventitre. Sulle facce di quei giovani si leggeva chiaramente che cosa essi pensavano. Vi erano i remissivi che ormai si erano messi l’animo in pace e avevano assunto un atteggiamento di passività e di assenteismo. Altri irrequieti, che parlottavano fra loro accennandosi con disprezzo gli ufficiali, facevano intendere che alla prima occasione se la sarebbero svignata a costo di rimetterci la pelle. Nel frattempo arrivò il picchetto armato: erano venticinque militari ed un capitano: avevano l’elmetto e la bandoliera e il moschetto; si fermarono un po’  lontano da noi e ad un tratto sparirono. Udimmo sparare. Io ed i miei compagni ci guardammo sorpresi. Avevano forse già compiuto il misfatto lontano da noi? Ma purtroppo non era così. Poco dopo il picchetto armato ricomparve e non ho mai saputo perché si fosse allontanato di lì e perché avesse sparato.

Intanto ci avevano fatto riunire e stavano disponendoci in quadrato proprio davanti all’alto muri delle gradinate dello Stadio. Furono portate cinque sedie. L’esecuzione era ormai certa e prossima. Mi voltai indietro e scorsi un orto, forse un orto di guerra, in cui un uomo e una donna stavano lavorando senza curarsi di nulla. Mi parve che seminassero. Ad un tratto giunsero molti uomini vestiti di scuro che fecero allontanare tutte le persone che si erano avvicinate a noi e l’uomo e la donna che lavoravano nell’orto e che non ci avevano degnato neppure di uno sguardo. Arrivarono infine camion carichi di militari fascisti, armati di mitra e moschetto, e ci circondarono. Parecchi altri militi furono disposti molto più lontano, forse perché ci sorvegliassero meglio. Sghignazzavano, bestemmiavano e lanciavano insulti contro le vittime; schernivano noi che stavamo dinanzi a loro minacciandoci di continuo coi mitra. Improvvisamente apparve alla nostra sinistra il furgone della polizia ai cui sportelli erano attaccati alcuni militi della guardia repubblicana coi mitra a tracolla. Dal di dentro venivano urla che poco avevano di umano e fra le urla gridi di   << mamma, mamma >>. Un fremito di orrore e di ribellione corse fra la truppa. Da ogni parte si levarono voci di rivolta; e gli ufficiali non furono capaci di far tacere i soldati. Infine quando tornò un po’ di silenzio un ufficiale lesse la sentenza del tribunale militare di guerra che dichiarava i cinque giovani Antonio Raddi, Guido Targetti, Leandro Corona, Ottorino Quiti e Adriano Santoni renitenti alla leva e in conseguenza li condannava alla pena di morte mediante fucilazione al petto.

Qui i miei ricordi sono un po’ confusi. Io era in una delle ultime file e poi non volli vedere la preparazione di sì orrendo delitto; udivo soltanto le grida di quei ragazzi che non volevano morire. Intorno a me c’era molta confusione, le file si erano rotte: chi urlava, chi piangeva. Le file furono riordinate, ma ancora una volta si ruppero. In quell’istante scorsi accanto a me il capitano Cirri che stava cinicamente caricando la sua macchina fotografica e guardava ogni tanto il cielo, forse per poter dare al diaframma una giusta apertura. Mi parlò anche, ma di tutte le sue parole non ricordo che queste: << Tra poco giustizia sarà fatta >>, e accennando alla macchina fotografica: << Speriamo che vengano chiare >>. 

In questo momento risuonò la scarica del plotone di esecuzione, udii qualche urlo, alzai gli occhi e vidi che due dei giovani erano caduti in terra insieme con la seggiola su cui stavano seduti; gli altri tre erano sempre seduti e gridavano << mamma >>. I soldati del plotone di esecuzione, presi con la forza, piangevano forse fino da quando erano stati condotti in mezzo al quadrato e quasi nessuno di loro aveva sparato alle vittime. Ora i cinque giovani dovevano attendere il colpo di grazia dal capitano del picchetto. Cominciò il lavoro della rivoltella ed io udii numerosi colpi. Mi fu detto poi che per finire uno dei condannati si era dovuto sparagli nella testa un caricatore intero. Anche quel capitano era commosso e tremava, e mentre sparava volgeva la testa dall’altra parte, così che i suoi colpi non erano mortali. Soltanto allora mi accorsi che il furgone della polizia era seguito da un carro funebre dal quale erano state scaricare cinque casse da morto che erano state deposte poco lontano dai cinque giovani.

Le file si rubbero ancora una volta, i miei compagni fuggivano e qualcuno era caduto svenuto per terra. Io fui travolto da quella confusione. Più tardi mi raccontarono che dal gruppo degli ufficiali si era ad un tratto staccato Carità e aveva sparato su uno dei moribondi. Subito dopo il delitto le cinque bare furono avvicinate al luogo dell’esecuzione e le salme vi furono composte. Senonché qualcuno si accorse che uno dei fucilati non era ancora morto e fu necessario tirarlo di nuovo fuori e sparagli un altro colpo nella testa e poi ricollocarlo nella bara. Ricomposti di nuovo i quadri ci avviammo verso la Caserma e passammo accanto ai militi fascisti che sghignazzavano a causa del nostro contegno e ci dicevano che avrebbero volentieri fucilato anche noi. Rientrammo in caserma passando per la Costa San Giorgio. Verso le undici tornarono in caserma i nostri quindici compagni che avevano fatto parte del plotone di esecuzione. Erano disfatti, si gettarono sui loro castelli e piansero. Per premiarli fu concesso loro una licenza di quattro o cinque giorni. Il << Pupo >> si vergognava ora di appartenere al fascio repubblicano e non portava più il distintivo che teneva nel borsellino.

Per completare questo racconto mi sono rivolto al mio amico A.V., sergente allievo ufficiale, che assistette alla fucilazione da una delle prime file. Egli mi ha inviato questi particolari:

<< Il furgoncino si fermò vicino a me e subito udii le urla strazianti di quei poveretti. Tre di loro avevano proprio l’aspetto bambini. Consci ormai della fine a cui andavano incontro urlavano disperatamente, invocavano la mamma, chiedevano come forsennati:  “ Perché ci fucilate? ” e pregavano Dio di salvarli. Più volte gli sgherri dovettero sorreggerli perché non si abbattessero in terra. Gli altri due di aspetto più virile dei compagni e più forti, erano abbastanza calmi, tanto che cercavano di confortarli. Anche il cappellano militare cercava di rendere sopportabili a quei poveretti i loro ultimi momenti di sofferenza.>>

<< Intorno si facevano gli ultimi preparativi per il supplizio. I carnefici in camicia nera allinearono cinque seggiole davanti al muro con una lentezza e un manifesto malanimo come se proprio volessero prolungare il più possibile la straziante agonia di quei poveretti che continuavano disperatamente ad invocare la grazia e la loro mamma. Giunse il plotone di esecuzione che si schierò a pochi passi dalle vittime. Li conoscevo quasi tutti perché erano stati presi dalla mia caserma. Essi, al mattino, si erano rifiutati di commettere l’assassinio, ma il maggiore Carità aveva detto: “ Per coloro di voi che si rifiutano di obbedire ho nella mia pistola tante pallottole da spedirli all’inferno insieme con quei fuorilegge ”. Essi mi facevano quasi più compassione degli stessi condannati. Questi non avevano che da passare pochi momenti di martirio, mentre i primi avrebbero avuto, forse tutta la vita, davanti agli occhi la strage di cui si sarebbero purtroppo sentiti gli esecutori materiali.>>

<< Mi guardai intorno. Le ultime file erano in subbuglio. I soldati delle prime file, quelli vicino a me, fissavano cupi e atterriti quanto stava accadendo a pochi passi da loro. Moltissimi si coprivano, con le mani o con tutte le braccia, gli occhi e gli orecchi.>>

<< Le cinque vittime furono prese e con sforzi sovrumani furono messi sulle seggiole. Si legò loro le braccia dietro le spalliere e si bendò loro gli occhi. Continuavano a urlare come forsennati. Uno di essi cominciò a chiamare il fratello che era stato graziato, chiedendo ripetutamente e con parole supplichevoli che gli consentissero di rivederlo e di riabbracciarlo ancora una volta. Ciò gli fu violentemente negato forse anche per non prolungare quella tragica scena che minacciava di fare esplodere quel qualcosa di grave, ossessionante e imprecisabile che tutti presentivamo compresi i responsabili dell’eccidio. Essi mi apparivano in preda ad un malcelato terrore. Uno dei condannati disse dolcemente a colui che invocava il fratello di aver pazienza e che un giorno si sarebbero riabbracciati in cielo.>>

<< Un ufficiale con la pistola in pugno impartiva nel frattempo gli ultimi ordini agli uomini del plotone: “ Mirate giusto e con risolutezza al cuore ”  egli diceva, mentre un tenente colonnello di cui non ricordo il nome, lesse ad alta voce i nomi delle vittime con la relativa motivazione della condanna di morte emessa dal Tribunale Militare. Tutto fu pronto per l’esecuzione; allora scorsi parecchie persone ritirarsi in disparte, fra le quali anche il cappellano che fino a quel momento era restato vicino ai cinque giovani che vedevano in lui l’unico amico e del quale non volevano distaccarsi a nessun costo.

<< Un ufficiale, con comandi secchi e decisi, ordinò il caricat ed il puntat. Le sue parole risuonarono lugubri nel silenzio che si era fatto intorno a me, silenzio che agghiacciava il cuore, rotto soltanto dalle urla incessanti dei condannati. Vidi le braccia tremanti degli uomini del plotone puntare i fucili in direzione delle seggiole. Certamente essi non scorgevano nulla dinanzi a loro; infatti, all’ordine di far fuoco, udii distintamente i colpi partire uno dopo l’altro in un crepitare lento e funesto. Ben pochi raggiunsero il bersaglio. Soltanto due giovani morirono: gli altri squarciati dalle ferite caddero per terra contorcendosi e urlando di dolore come bestie. Il giovane, che pochi minuti prima aveva chiesto di poter abbracciare il fratello, tentò, con un ultimo sforzo, di rialzarsi quasi volesse fuggire alla morte. Allora vidi l’ufficiale avvicinarsi a lui e sparagli a bruciapelo, alla testa, una rivoltellata. Il giovane rotolò di nuovo per terra e di nuovo tornò ad alzarsi. Mi sembrò in quel momento che fosse dotato di una strana forza e che volesse sfidare il suo carnefice con accorti movimenti di lotta, ma quegli gli sparò addosso altri tre colpi di rivoltella e lo finì.>>

<< Gli altri due non erano ancora morti, continuavano a lamentarsi con un filo di voce, mentre alcuni militi si avvicinavano a loro per prenderli e gettarli nelle bare. L’ufficiale, poiché la sua rivoltella era scarica se ne fece dare un’altra da un premuroso collega e dette loro il colpo di grazia. Ad uno sparò mentre si trovava nella bara. Anche un ufficiale delle S.S. italiane sparò qualche colpo contro i giovani, e mi dissero che era Carità. Mi voltai indietro e vidi le file scomposte, molti soldati piangere e inveire >>.

Qualche giorno dopo parlai col << Pupo >>.  Egli mi disse che la notte precedente l’esecuzione era stata terribile e che egli era stato un po’ di tempo vicino alla stanza in cui erano i cinque giovani. Mi raccontò che il fratello di uno di loro, anch’egli condannato a morte e all’ultimo momento graziato, pianse tutta la notte, e la sua disperazione scosse ancor più i soldati che facevano parte del plotone di esecuzione. Mi disse anche poco prima che i cinque giovani fossero portati via dalla caserma e condotti sul luogo del loro assassinio un ragazzetto, arruolato nelle S.S. italiane, ballonzolava dinanzi a loro ridendo e schernendoli. La disperazione dei quindici soldati crebbe ancora nei giorni successivi. Essi talvolta si ritenevano autori volontari di quella strage, tal’altra vittime della prepotenza degli ufficiali. Urlavano, piangevano, e spesso la notte si svegliavano all’improvviso gridando << no, no >>  o ripetendo gli stessi gridi dei fucilati. Invocavano la mamma, dicevano di non voler morire, emettevano urla di spavento e invocazioni di aiuto. Noi li consolavamo meglio ci era possibile.

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       ( Luigi BOCCI,  “ Ricordi di un allievo ufficiale”

                                 in  “ Società “, I, 1945, n.1-2 )

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