Archivio Vittorio Mascherini

una vita attraverso due guerre mondiali e la resistenza

MONFALCONE E QUOTA 85

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Luglio – Settembre    1916

Il nostro Reggimento 155°  Fanteria, giunse a Monfalcone alla meta’ del mese di Luglio. Facevo ancora parte del 3° Battaglione, comandato dal Maggiore Bosco, comandavo il 1° plotone della 9 a Compagnia, comandata dal Capitano Sala Francesco.

Quota 85, era stata perduta e il nostro Battaglione aveva il compito di riconquistarla essendo questa un caposaldo di grande importanza. Durante un micidiale fuoco di artiglieria, che batteva la trincea conquistata dal nemico, cominciammo, a ordine sparso l’avvicinamento alla postazione da attaccare. Sull’imbrunire la postazione era riconquistata data la tempestività dell’attacco, e l’azione di artiglieria che non avevano dato tempo al nemico dell’afflusso di rinforzi e del consolidamento a difesa della posizione. Noi della 9     a Compagnia con la 10a eravamo in prima linea e le altre due Compagnie di rincalzo, ci mettemmo con gran lena a rinforzare la posizione e munirla di cavalli di frisia, poiché era certo che il nemico sarebbe venuto al contrattacco.

Le prime ore della sera trascorsero calme, ma verso le ore 22, fu segnalato da una pattuglia, dei movimenti  del nemico e così a distanza di poco, i primi spari delle pattuglie e conseguentemente il ripiegamento di queste nella posizione. Trascorso pochissimo tempo il contrattacco si sviluppò con molta irruenza, in un primo tempo trattenemmo il nemico con nutrito fuoco di fucileria, mitragliatrici e bombe a mano.

Intervenne l’artiglieria nostra e loro con tiro rasente, ma l’impeto degli attaccanti era irruento e in gran forze, fu gioco forza porre in azione i lanciafiamme, il vento era favorevole a noi e in pochi istanti gli Austriaci cominciarono ad arretrare e iniziò il loro ripiegamento inseguito dal fuoco delle nostre armi, ma in un istante il vento si fece a noi contrario e il nostro ridottino fu una sola fiamma.

 

Era l’inferno, eravamo battuti dalla loro artiglieria alle spalle e dalla nostra di fronte. Sebbene il contrattacco costò a noi varie perdite, ma quelle del nemico furono assai rilevanti. In quest’orgia di fuoco scorsi al chiarore delle fiamme un mio soldato con sulle spalle una forma rotonda, gli chiesi cosa portasse :      “ Una forma di formaggio, vado a nasconderla nel ricovero ! ”. Ho narrato tale episodio per dimostrare quale era il disprezzo del pericolo, si pensava al vitto invece che alla vita. Durante tutta la notte non fummo più disturbati e alla prime luci del giorno si presentò ai nostri occhi una scena terribile : il terreno antistante alla nostra trincea era punteggiato da molti cadaveri tutti bruciati dai lanciafiamme. Questi furono sotterrati .Nei giorni dopo furono tentati altri attacchi, ma tutti furono respinti e la nostra posizione ormai era posta a completa difesa e l’avere respinto il primo contrattacco rimase leggendario e il nostro fu chiamato “ Battaglione di ferro ”.  Il compito assegnatoci l’avevamo assolto ed avemmo gli elogi dai Comandi superiori. Effettivamente Q.85 poteva considerarsi il caposaldo di Monfalcone poiché da lì si dominava tutta la pianura fino al mare, la ferrovia che portava a Trieste e tutte le altre Quote che andavano a decrescere di altezza fino a giungere a piccoli rialzi di terreno vicino al mare.  

 

Il mio plotone era composto di Toscani e Romagnoli e ci consideravamo tutti fratelli di questo faceva parte anche il mio caro amico Marchese Ghino Ghini di Cesena. Con esso m’intrattenevo nel parlare del bel soggiorno trascorso in tale città e riepilogare le nostre avventure galanti già trascritte in un precedente capitolo. Il Ghini doveva recarsi a frequentare il corso d’ufficiale avendo già la licenza liceale.  

 

Egli era pure come me un fervente interventista e volontario e a malincuore lasciava la prima linea ed anche per l’affetto che ci legava. Il 25 Luglio mi giunse l’ordine perentorio di ordinare al Caporale Ghini di lasciare la trincea, ma data l’ora tarda, pregò tanto il Capitano Sala, comandante la nostra Compagnia di trattenerlo fino al mattino seguente. Nella notte una pattuglia nemica attaccò la nostra posizione e mentre ci trovavamo sul parapetto della trincea a gettare bombe a mano e le mitragliatrici falciavano il nemico, il Caporale Ghini si accasciò al suolo, corsi a costatare ciò che era avvenuto, ma per Ghini ormai era finita!

 

Un proiettile lo aveva raggiunto alla testa e fulminato all’istante. Con immenso dolore nel cuore ritornai al mio posto di combattimento e solo dopo qualche ora, quando la pattuglia si ritirò quasi annientata potei dedicarmi tutto alla sistemazione del caro amico.

 

Caro Ghino ! Il volto era rimasto sereno e col sorriso sulle labbra, come a dimostrare tutta la di lui felicità di avere data la vita per la nostra Patria. Con altri tre morti fu portato in seconda linea, mentre i feriti, in numero di cinque, furono condotti al posto di medicazione e da lì essere smistati per gli ospedali delle retrovie. Il giorno dopo giunse l’ordine al Battaglione d’inviare la 9 a e la 10 a Compagnia a riposo in terza linea a Monfalcone.

Tale notizia mi fece immenso piacere perché mi dava la possibilità di interessarmi della sepoltura del Ghini e sistemare alla meglio le tombe dei miei soldati morti nei combattimenti dei giorni precedenti.

 

Giunto a Monfalcone, dopo avere sistemato il Plotone nei baraccamenti lungo il canale Carducci, mi recai dal Capitano Sala, e dato, che il Ghini in varie altri combattimenti si era dimostrato coraggioso e volontariamente aveva disimpegnato mansioni difficili ed arrischiose, proposi al Capitano di proporre il mio amico per una ricompensa al Valor Militare e tale proposta fu accettata non solo da lui ma pure dai Comandi Superiori.

 

Il padre del Ghini, quale Capitano di Artiglieria si trovava a Cividale e dal Comando di Divisione fui autorizzato di telegrafare la triste notizia. Avuta la comunicazione ne comunicai al padre del Ghini che il figlio era ferito gravemente e non trasportabile.

 

Tutto concitato mi disse che sarebbe partito subito. Giunse dopo due ore. Mi trovavo col Capitano Sala e il Maggiore Bosco quando entrò nel Comando di Battaglione.

 

Mi venne incontro, mi abbracciò e baciò e disse:

 

Mascherini! La sua pietosa menzogna non mi ha ingannato la commozione l’ha tradito, come le sue lacrime mi annunciano che il mio Ghino è morto.

 

Tenendomi sempre stretto a sé diede in un dirotto pianto e per vario tempo, né le parole dei miei superiori e né le mie, potettero calmarlo. Quando la crisi dolorosa si fu un poco calmata espresse il desiderio di vedere la salma, il Capitano Sala mi guardò con fare interrogativo ed io comunicai di recarci al Cimitero poiché avevo disposto di soprassedere alla sepoltura fino al mio ordine.

 

Si giunse tutti nella Cappella del Cimitero, la salma era raccolta nella rozza bara e qui lo strazio del padre si fece più forte. Volle assistere alla sepoltura, e dopo, sempre tenendomi stretto a sé facemmo ritorno al Comando. Fu informato dettagliatamente di tutto e con voce strozzata da un singhiozzo disse: “ Avete fatto di tutto, ma ormai era il suo destino. Tu Mascherini seguita ad essere amico della mia famiglia, i tuoi scritti mi recheranno gioia, poiché voi eravate due amici inseparabili .”

 

Ci trattenemmo ancora a lungo a parlare, mi comunicò che fra giorni sarebbe venuto nuovamente insieme all’altro figlio Alfredo anch’egli Tenente d’Artiglieria si trovava a Palmanuova.

 

Il nostro distacco fu assai doloroso. Quando fu partito mi recai al Cimitero ove diedi disposizioni che, sulle tombe dei miei dieci soldati fossero piantati dei fiori, poiché i miei soldati erano amici e fratelli tutti uguali. Quanti padri in quel momento piangevano, quanti già avevano pianto, quanti piangeranno ancora e con essi le madri e tutti gli altri cari.

 

Era la guerra! Non ci era dato a noi Combattenti di sofisticare tanto, un momento di abbattimento doloroso e di pianto e poi nuovamente pronti a dare per la Patria la nostra vita.  Dissimulare il nostro dolore per infondere sempre nuovo coraggio ed ardire ai nostri soldati che comandavamo, sia con la parola che l’esempio.

 

Monfalcone era una bella cittadina, sebbene in parte distrutta dai bombardamenti, il nostro accantonamento assai discreto e pulito ed ogni Plotone si arrangiava a migliorarlo il più possibile per trascorrere con maggior comodo i dieci giorni di riposo.

 

Una cosa mancava, la donna! Per rimediare a tale sentita mancanza venne l’ordine, a chi lo desiderava, di recarsi per ventiquattro ore a Cividale, la cittadina a noi più vicina.

Io, Valenti, il S. Tenente Tassi e Ceccarelli fummo i primi ad approfittare e per ventiquattr’ore ci divertimmo e godemmo bevendo alla coppa del piacere per varie volte.

 

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